Natura, funzione e tattica del partito
rivoluzionario della classe operaia
( 1945 )
( «Prometeo»,
N° 7, maggio-giugno 1947 )
La questione relativa
alla tattica del partito è di importanza fondamentale, e va chiarita in
relazione alla storia dei contrasti di tendenza e di indirizzo che si sono
verificati nella II e nella III Internazionale.
Non si deve ritenere che
la questione sia di natura accessoria e derivata, nel senso che gruppi
consenzienti sulla dottrina e sul programma possano, senza intaccare tali basi,
sostenere ed applicare indirizzi diversi nell’azione, sia pure a proposito di
episodi transitori.
Porre i problemi relativi
alla natura ed all’azione del partito significa essere passati dal campo della
interpretazione critica dei processi sociali a quello della influenza che su
tali processi può esercitare una forza attivamente operante. Il trapasso
costituisce il punto più importante e delicato di tutto il sistema marxista e
fu inquadrato nelle frasi giovanili di Marx: «I filosofi non hanno fatto finora
che interpretare il mondo, si tratta ora di cambiarlo» e «Dall’arma della
critica occorre passare alla critica con le armi».
Questo passaggio, dalla
pura conoscenza all’intervento attivo, va inteso secondo il metodo del materialismo
dialettico in maniera totalmente diversa da quella dei seguaci delle ideologie
tradizionali. Troppe volte ha fatto comodo agli avversari del comunismo
sfruttare il bagaglio teorico marxista per sabotarne e rinnegarne le
conseguenze di azione e di battaglia, ovvero, da altre sponde, mostrare di
aderire alla prassi del partito proletario ma confutare e rigettare le sue basi
critiche di principio. In tutti questi casi la deviazione era il riflesso di
influenze anticlassiste e controrivoluzionarie, e si è estrinsecata nella crisi
che indichiamo per brevità sotto il nome di opportunismo.
I principii e le dottrine
non esistono di per sé come un fondamento sorto e stabilito prima dell’azione;
sia questa che quelli si formano in un processo parallelo. Sono gli interessi
materiali concorrenti che spingono i gruppi sociali praticamente nella lotta, e
dall’azione suscitata da tali materiali interessi si forma la teoria che
diviene patrimonio caratteristico del partito. Spostati i rapporti di
interessi, gli incentivi all’azione e gli indirizzi pratici di questa, si
sposta e si deforma la dottrina del partito.
Pensare che questa possa
essere diventata sacra ed intangibile per la sua codificazione in un testo
programmatico e per una stretta inquadratura organizzativa e disciplinare dell’organismo
di partito, e che quindi ci si possa consentire svariati e molteplici indirizzi
e manovre nell’azione tattica, significa non scorgere marxisticamente qual’ è
il vero problema da risolvere per giungere alla scelta dei metodi dell’azione.
Si ritorna alla
valutazione del determinismo. Gli eventi sociali si svolgono per forze
incoercibili, dando luogo a diverse ideologie e teorie ed opinioni degli
uomini, o possono essere modificati dalla più o meno cosciente volontà degli
uomini stessi? Il quesito viene affrontato dal metodo proprio del partito
proletario con lo spostarne radicalmente le basi tradizionali. Lo si è sempre
riferito all’individuo isolato, pretendendo di risolverlo per l’individuo e poi
dedurne la soluzione per il tutto sociale; ed invece si deve trasportarlo dall’individuo
alla collettività. Si è sempre intesa per collettività l’altra metafisica
astrazione che è la società di tutti gli uomini, mentre marxisticamente deve
intendersi per collettività l’aggruppamento concretamente definito di individui
che in una data situazione storica hanno, per i loro rapporti sociali, ossia
per il loro posto nella produzione e nell’economia, interessi paralleli;
aggruppamenti che appunto si chiamano classi.
Per le tante classi
sociali che presenta la storia umana, non si risolve in uno stesso modo
generico il problema delle loro capacità di intendere esattamente il processo
in cui vivono, e di esercitare su di esso un certo grado di influenza. Ogni
classe storica ha avuto il suo partito, il suo sistema di opinioni e di
propaganda; ognuna ha preteso con pari insistenza di interpretare esattamente
il senso degli eventi, e di poterli indirizzare ad un fine più o meno vagamente
concepito. Di tutte queste impostazioni il marxismo fornisce la critica e la
spiegazione, mostrando che le varie generalizzazioni ideologiche erano il
riflesso nelle opinioni delle condizioni e degli interessi delle classi in
conflitto.
In questo continuo
avvicendamento, di cui sono motori gli interessi materiali, protagonisti gli
aggruppamenti in partiti ed organismi statali di classe, aspetti esteriori le
scuole politiche e filosofiche, la moderna classe proletaria, una volta
maturate le condizioni sociali della sua formazione, si presenta con capacità
nuove e superiori, sia quanto a possesso di un metodo non illusorio di
interpretazione di tutto il movimento storico, sia quanto a concreta efficacia
della sua azione di lotta sociale e politica nell’influire sullo svolgersi
generale di questo movimento.
Quest’altro concetto
fondamentale è stato enunciato dai marxisti con le frasi non meno note e
classiche: «Con la rivoluzione proletaria la società umana esce dalla sua
preistoria» e «La rivoluzione socialista costituisce il passaggio dal mondo
della necessità a quello della libertà».
Si tratta dunque di non
porre più nei banali termini tradizionali la domanda se l’uomo è libero nel suo
volere o determinato dall’ambiente esterno, se una classe ed il suo partito
hanno coscienza della loro missione storica e derivano da questa coscienza
teorica la forza per attuarla al fine di un generale miglioramento, ovvero
siano trascinati nella lotta, nel successo o nel disastro, da forze superiori o
sconosciute. Bisogna prima domandarsi di quali classi e di quali partiti si
tratta, quali siano i loro rapporti nel campo delle forze della produzione e
dei poteri statali, qual è il ciclo storico percorso, e quello che, secondo i
risultati dell’analisi critica, resta loro da percorrere.
Secondo la dottrina delle
scuole religiose, il fattore degli eventi sta fuori dell’uomo, nella divinità
creatrice, che ha tutto stabilito e che ha anche creduto di concedere all’individuo
un grado di libertà nell’azione, di cui dovrà quindi rispondere in una vita
ultraterrena. E ben noto che una simile soluzione del problema della volontà e
del determinismo è del tutto abbandonata dall’analisi sociale marxista.
Ma anche la soluzione
della filosofia borghese, con le sue pretese di critica illuministica e la sua
illusione di avere eliminato ogni presupposto arbitrario e rivelato, resta
parimenti ingannevole, perché il problema dell’azione è sempre ridotto al
rapporto di soggetto e oggetto, e nelle versioni antiche e recenti dei vari
sistemi idealistici il punto di partenza è ricercato nel soggetto individuale,
nell’Io, in quanto appunto risiede nel meccanismo del suo pensiero e si traduce
successivamente negli interventi di questo Io sopra l’ambiente naturale e
sociale. Da qui la menzogna politica e giuridica del sistema borghese, per cui
l’uomo è libero e come cittadino ha il diritto di amministrare secondo l’opinione
nata nella sua testa la cosa comune e quindi anche i propri interessi.
La interpretazione
marxista della storia e dell’azione umana, se ha quindi espulso l’intervento di
ogni influenza trascendente e di ogni verbo rivelato, ha con non minore
decisione capovolto lo schema borghese della libertà e della volontà dell’individuo,
mostrando come sono i suoi bisogni e i suoi interessi a spiegare il suo
movimento e la sua azione, e solo come ultimo effetto delle più complicate
influenze si determinano le sue opinioni e credenze e ciò che si chiama la sua
coscienza.
Ben vero, quando dal
concetto metafisico di coscienza e di volontà dell’Io si passa a quello reale e
scientifico di conoscenza teorica e di azione storica e politica del partito di
classe, il problema viene impostato chiaramente, e se ne può affrontare la
soluzione.
Questa soluzione ha una
portata originale per il movimento ed il partito del moderno proletariato in
quanto per la prima volta si tratta della classe sociale che non solo è portata
a spezzare i vecchi sistemi e le vecchie forme politiche e giuridiche che
impediscono lo svolgersi delle forze produttive (compito rivoluzionario che ebbero
anche le precedenti classi sociali), ma per la prima volta attua tale lotta non
per costituirsi in una nuova classe dominante, ma per stabilire rapporti
produttivi tali che permettano di eliminare la pressione economica e lo
sfruttamento di classe su classe.
Il proletariato dispone
quindi di maggiore chiarezza storica, e di influenza più diretta sugli eventi,
che non le classi che lo hanno preceduto nel dirigere la società.
Questa attitudine storica
e facoltà nuova del partito di classe proletario va seguita nel complicato
processo del suo manifestarsi nelle successive vicende storiche che il
movimento proletario ha fin qui attraversato.
Il revisionismo della II
Internazionale, che dette luogo all’opportunismo nella collaborazione ai governi
borghesi, in pace e in guerra, fu la manifestazione della influenza che ebbe
sul proletariato la fase di sviluppo pacifico ed apparentemente progressivo del
mondo borghese, nell’ultima parte del secolo XIX. Sembrò allora che l’espansione
del capitalismo non conducesse, come era apparso nel classico schema di Marx,
alla inesorabile esasperazione dei contrasti di classe e dello sfruttamento ed
immiserimento proletario. Sembrava, fin quando i limiti del mondo capitalistico
potessero estendersi senza suscitare crisi violente, che il tenore di vita
delle classi lavoratrici potesse gradualmente migliorarsi nell’ambito stesso
del sistema borghese. Il riformismo in teoria elaborò questo schema della
evoluzione senza urti dall’economia capitalistica a quella proletaria, e nella
pratica con tutta coerenza affermò che il partito proletario poteva esplicare
una azione positiva con realizzazioni quotidiane di parziali conquiste,
sindacali, cooperative, amministrative, legislative, che diventavano
altrettanti nuclei del futuro sistema socialista inseriti nel corpo di quello
attuale, e che a mano a mano lo avrebbero trasformato nella sua totalità.
La concezione del compito
del partito non fu più quella di un movimento che dovesse tutto far dipendere
dalla preparazione di uno sforzo finale per attuare le massime conquiste, ma si
trasformò in una concezione sostanzialmente volontaristica e pragmatistica, nel
senso che l’opera di ogni giorno veniva presentata come una solida
realizzazione definitiva, e contrapposta alla vacuità della passiva
aspettazione di un grande successo futuro che dovesse sorgere dallo scontro
rivoluzionario.
Non meno volontaristica,
anche per la dichiarata adesione a più recenti filosofie borghesi, era la
scuola sindacalista, che parlava bensì di aperto conflitto di classe e di
svuotamento e abolizione di quel meccanismo statale borghese, che i riformisti
volevano permeare di socialismo, ma in realtà, localizzando la lotta e la
trasformazione sociale a singole aziende della produzione, pensava parimenti
che i proletari potessero successivamente stabilire con la lotta sindacale
tante posizioni vittoriose in isolotti del mondo capitalistico. Una derivazione
del concetto sindacalistico, in cui l’unità internazionale e storica del
movimento di classe e della trasformazione sociale è frammentata in tante
successive prese di posizione negli elementi dell’economia produttiva, in nome
di una impostazione concreta ed analitica dell’azione, si ebbe nella teoria dei
consigli di fabbrica propria del movimento italiano dell’ «Ordine Nuovo».
Ritornando al
revisionismo gradualista, è chiaro che, come veniva resa secondaria la massima
realizzazione programmatica dell’azione del partito e messa in primo piano la
conquista parziale e quotidiana; così veniva preconizzata la ben nota tattica
di alleanza e di coalizione con gruppi e partiti politici che volta a volta
consentissero nell’appoggiare le rivendicazioni parziali e le riforme del
partito proletario.
Fin d’allora fu opposta a
questa prassi la sostanziale obiezione che lo schieramento del partito a fianco
di altri su di un fronte che divideva in due il mondo politico su determinati
problemi che apparivano nella attualità del momento, conduceva di riflesso a
snaturare il partito, ad annebbiare la sua chiarezza teorica, ad indebolire la
sua organizzazione e a compromettere la sua possibilità di inquadrare la lotta
delle masse proletarie nella fase della conquista rivoluzionaria del potere.
La natura della lotta
politica è tale, che lo schieramento delle forze in due campi separati da
opposte soluzioni di un suggestivo problema contingente, polarizzando tutte le
azioni di gruppi intorno a quel transitorio interesse e a quella immediata
finalità e sopraffacendo ogni propaganda programmatica ed ogni coerenza alla
tradizione dei principii, determina nei gruppi combattenti orientamenti che
riflettono direttamente e traducono in modo bruto l’esigenza per cui si
combatte.
Il compito del partito,
cosa apparentemente pacifica presso gli stessi socialisti dell’epoca classica,
dovrebbe essere di conciliare l’intervento nei problemi e nelle conquiste
contingenti con la conservazione della sua fisionomia programmatica e della
capacità a portarsi sul terreno della lotta sua propria per la finalità
generale ed ultima della classe proletaria. In effetti avvenne che l’attività
riformistica non solo fece dimenticare ai proletari la loro preparazione
classista e rivoluzionaria, ma condusse gli stessi capi e teorici del movimento
a farne aperto gettito, proclamando che ormai non era più il caso di
preoccuparsi di realizzazioni massime, che la finale crisi rivoluzionaria
prevista dal marxismo si riduceva anch’essa ad utopia, e che ciò che importava
era la conquista di ogni giorno. Divisa comune dei riformisti e sindacalisti
fu: «il fine è nulla, il movimento è tutto».
La crisi di questo metodo
si presentò imponente con
Lo spostamento del fronte
di agitazione e di azione immediata, attuato negli anni della pratica
riformista, si rivelò come una debolezza insanabile, poiché le finalità massime
di classe risultarono dimenticate e incomprensibili per i proletari. Il metodo
tattico di accettare lo schieramento dei partiti in due coalizioni diverse
secondo i paesi e le contingenze delle più svariate parole (per una maggiore
libertà di organizzazione, per la estensione del diritto di voto, per la
statizzazione di alcuni settori economici ecc. ecc.), fu ampiamente sfruttato
nelle sue nefaste conseguenze dalla classe dominante, provocando quegli
schieramenti politici dei capi del proletariato che costituirono la
degenerazione social-patriottica.
Utilizzando abilmente la
popolarità data a quei postulati non classisti dalla propaganda delle potenti
organizzazioni di massa dei grandi partiti socialisti della II Internazionale,
fu facile deviare la loro impostazione politica dimostrando che nell’interesse
del proletariato e perfino del suo cammino verso il socialismo occorreva
frattanto darsi a difendere altri risultati, come la civiltà tedesca contro lo
zarismo feudale e teocratico, ovvero la democrazia occidentale contro il
militarismo teutonico.
A questo indirizzo
disastroso per il movimento operaio reagì, attraverso
La critica agli
opportunisti della II Internazionale fu bensì completa e decisiva non solo
quanto al loro abbandono totale dei principii marxisti, ma anche quanto alla
loro tattica di coalizione e di collaborazione con governi e partiti borghesi.
Fu posto in tutta
evidenza che l’indirizzo particolaristico e contingentistico dato ai vecchi
partiti socialisti non aveva condotto affatto ad assicurare ai lavoratori
piccoli benefici e miglioramenti materiali in cambio della rinunzia a preparare
ed attuare l’attacco integrale agli istituti ed al potere borghese, ma aveva
condotto, compromettendo entrambi i risultati, il minimo ed il massimo, ad una
situazione ancora peggiore, ossia all’impiego delle organizzazioni, delle
forze, della combattività, delle persone e delle vite dei proletari per
realizzare scopi che non erano quelli politici e storici della loro classe, ma
conducevano al rafforzamento dell’imperialismo capitalistico. Questo aveva così
superata nella guerra, per una intera fase storica almeno, la minaccia insita
nelle contraddizioni del suo meccanismo produttivo, e superata la crisi
politica determinata dalla guerra e dalle sue ripercussioni coll’assoggettare a
sé gli inquadramenti sindacali e politici della classe avversaria attraverso il
metodo politico delle coalizioni nazionali.
Ciò equivaleva, secondo
la critica del leninismo, ad avere completamente snaturato il compito e la
funzione del partito proletario di classe che non è di salvare la patria
borghese o gli istituti della cosiddetta libertà borghese da denunziati
pericoli, ma di tenere schierate le forze operaie sulla linea dell’indirizzo
storico generale del movimento, che deve culminare nella conquista totale del
potere politico, abbattendo lo Stato borghese.
Si trattava, nell’immediato
dopo-guerra, quando apparivano sfavorevoli le cosiddette condizioni subiettive
della rivoluzione (ossia la efficienza della organizzazione e dei partiti del
proletariato) ma si presentavano favorevoli le condizioni obiettive, per il
manifestarsi in tutta la sua ampiezza della crisi del mondo borghese, di
riparare alla prima deficienza con la pronta riorganizzazione della
Internazionale rivoluzionaria.
Il processo fu dominato,
né poteva essere altrimenti, dal grandioso fatto storico della prima vittoria
rivoluzionaria operaia in Russia, che aveva permesso di riportare in piena luce
le grandi direttive comuniste. Si volle però tracciare la tattica dei partiti
comunisti, che negli altri paesi riunivano i gruppi socialisti avversi all’opportunismo
di guerra, sulla diretta imitazione della tattica vittoriosamente applicata in
Russia dal partito bolscevico nella conquista del potere, attraverso la storica
lotta dal febbraio al novembre 1917.
Questa applicazione dette
luogo fin dal primo momento ad importanti dibattiti sui metodi tattici della
Internazionale, e specialmente su quello che fu detto del «fronte unico»,
consistente in inviti rivolti frequentemente agli altri partiti proletari e
socialisti per una agitazione ed azione comuni ed aventi il fine di porre in
evidenza l’inadeguatezza del metodo di quei partiti e spostare a vantaggio dei
comunisti la loro tradizionale influenza sulle masse.
In effetti, nonostante
gli aperti avvertimenti della Sinistra italiana e di altri gruppi di
opposizione, i capi dell’Internazionale non si resero conto che questa tattica
del fronte unico, spingendo le organizzazioni rivoluzionarie a fianco di quelle
social-democratiche, social-patriottiche, opportunistiche, dalle quali esse si
erano appena separate in irriducibile opposizione, non solo avrebbe
disorientato le masse, rendendo impossibili i vantaggi che da quella tattica si
aspettavano, ma avrebbe – il che era ancora più grave – inquinato gli stessi
partiti rivoluzionari. E vero che il partito rivoluzionario è il migliore ed il
meno vincolato fattore della storia, ma esso non cessa di essere egualmente un
prodotto di essa e subisce mutamenti e spostamenti ad ogni modificazione delle
forze sociali.Non si può pensare il problema tattico come il maneggio
volontario di un’arma che, volta in qualsiasi direzione, rimane la medesima; la
tattica del partito influenza e modifica il partito stesso. Se anche nessuna
tattica può essere condannata in nome di aprioristici dogmi, ogni tattica va
pregiudizialmente analizzata e discussa alla luce di un quesito come questo:
nel guadagnare una eventuale maggiore influenza del partito sulle masse, non si
sarà compromesso il carattere del partito e la sua capacità di guidare queste
masse allo scopo finale?
L’adozione della tattica
del fronte unico da parte della III Internazionale significava, in realtà, che
anche l’Internazionale Comunista si metteva sulla strada dell’opportunismo che
aveva condotto
Nella situazione del
primo dopoguerra, che appariva obiettivamente rivoluzionaria, la dirigenza dell’Internazionale
si fece guidare dalla preoccupazione – peraltro non immotivata – di trovarsi
impreparata e con scarso seguito nelle masse allo scoppio di un movimento
generale europeo che poteva conseguire la conquista del potere in alcuni dei
grandi paesi capitalistici. Era talmente importante per l’Internazionale leninista
l’eventualità di un rapido crollo del mondo capitalistico, che oggi si
comprende come, nella speranza di poter dirigere più vaste masse nella lotta
per la rivoluzione europea, si largheggiasse nell’accettare l’adesione di
movimenti che non erano veri partiti comunisti e si cercasse con la tattica
elastica del fronte unico di tenere contatto con le masse che erano dietro le
gerarchie di partiti oscillanti tra la conservazione e la rivoluzione.
Se l’eventualità
favorevole si fosse verificata, i riflessi sulla politica e la economia del
primo potere proletario in Russia sarebbero stati talmente importanti, da
permettere il risanamento rapidissimo delle organizzazioni internazionali e
nazionali del movimento comunista.
Essendosi invece
verificata l’eventualità meno favorevole, quella del ristabilimento relativo
del capitalismo, il proletariato rivoluzionario dovette riprendere la lotta ed
il cammino con un movimento che, avendo sacrificato la sua chiara impostazione
politica e la sua omogeneità di composizione e di organizzazione, era esposto a
nuove degenerazioni opportunistiche.
Ma l’errore che aprì le
porte della III Internazionale alla nuova e più grave ondata opportunistica non
era soltanto errore di calcolo delle probabilità future del divenire
rivoluzionario del proletariato; era un errore di impostazione e di
interpretazione storica consistente nel voler generalizzare le esperienze e i
metodi del bolscevismo russo, applicandoli ai paesi di enormemente più
progredita civiltà borghese e capitalistica. La Russia anteriore al febbraio ‘17
era ancora una Russia feudale nella quale le forze produttive capitalistiche
erano oppresse sotto i ceppi dei rapporti di produzione antichi: era ovvio che
in questa situazione, analoga a quella della Francia del 1789 e della Germania
del 1848, il partito politico proletario dovesse combattere contro lo zarismo
anche se fosse apparso impossibile l’evitare che dopo il suo rovesciamento si
stabilisse un regime borghese capitalistico; ed era in conseguenza altrettanto
ovvio che il partito bolscevico poteva accedere a contatti con altri
aggruppamenti politici, contatti resi necessari dalla lotta contro lo zarismo. Tra
il febbraio e l’ottobre ‘17, il partito bolscevico riscontrò le condizioni
oggettive favorevoli ad un più vasto disegno: quello di innestare sull’abbattimento
dello zarismo l’ulteriore conquista rivoluzionaria proletaria. In conseguenza,
irrigidì le sue posizioni tattiche, assumendo posizioni di lotta aperta e
spietata contro tutte le altre formazioni politiche, dai reazionari fautori di
un ritorno zarista e feudale, ai socialisti rivoluzionari ed ai menscevichi. Ma
il fatto che poteva temersi un effettivo ritorno reazionario del feudalesimo
assolutistico e teocratico, e il fatto che le formazioni statali e politiche
della borghesia o influenzate da essa, nella situazione estremamente fluida e
instabile, non avevano ancora nessuna saldezza e capacità di attrazione ed
assorbimento delle forze autonome proletarie, misero il partito bolscevico in
condizione di poter accettare contatti ed accordi provvisori con altre
organizzazioni aventi seguito proletario, come avvenne nell’episodio di
Kornilov.
Il partito bolscevico,
realizzando il fronte unico contro Kornilov, lottava in realtà contro un
effettivo ritorno reazionario feudale e, di più, non aveva da temere una
maggiore saldezza delle organizzazioni mensceviche e socialiste-rivoluzionarie,
che rendesse possibile un suo influenzamento da parte di queste, né un grado di
solidità e di consistenza del potere statale che consentisse a quest’ultimo di
trarre vantaggio dall’alleanza contingente con i bolscevichi per poi rivolgersi
contro di loro.
Completamente diversi
erano invece la situazione e i rapporti di forze nei paesi di avanzata civiltà
borghese. In essi non si poneva più (ed a maggior ragione non si pone oggi) la
prospettiva di un ritorno reazionario del feudalesimo, e veniva quindi a
mancare del tutto l’obiettivo stesso di eventuali azioni comuni con altri
partiti. Di più, in essi il potere statale e gli aggruppamenti borghesi erano
talmente consolidati nel successo e nella tradizione di dominio, che si doveva
ben prevedere che le organizzazioni autonome del proletariato, spinte a
contatti frequenti e stretti per la tattica del fronte unico, sarebbero state
esposte ad un pressoché inevitabile influenzamento e assorbimento progressivo
da parte di quelli.
L’aver ignorato questa
profonda differenza di situazioni, e l’aver voluto applicare nei paesi
progrediti i metodi tattici bolscevichi, adatti alla situazione del nascente
regime borghese della Russia, ha portato l’Internazionale Comunista ad una
serie sempre crescente di disastri, ed infine alla sua ingloriosa liquidazione.
La tattica del fronte
unico fu spinta fino a dare parole diverse da quelle programmatiche del partito
sul problema dello Stato, sostenendo la richiesta e l’attuazione di governi
operai, e cioè di governi formati da rappresentanze miste comuniste e
social-democratiche, le quali giungessero al potere per le normali vie parlamentari,
senza rompere violentemente l’apparato statale borghese. Tale parola del
Governo operaio veniva presentata al V Congresso della Internazionale Comunista
quale corollario logico e naturale della tattica del fronte unico; e veniva
applicata in Germania, ottenendo come risultato una grave disfatta del
proletariato tedesco e del suo partito comunista.
Con l’aperta e
progressiva degenerazione dell’Internazionale dopo il IV Congresso, la parola
del fronte unico servì ad introdurre la tattica aberrante della formazione di
blocchi elettorali con partiti non più soltanto non comunisti, ma anche e
perfino non proletari, della creazione dei fronti popolari, dell’appoggio a
governi borghesi, ovvero – e sorge qui la questione più attuale – del
proclamare, nelle situazioni in cui la controffensiva borghese fascista aveva
conseguito il monopolio del potere, che il partito operaio, soprassedendo alla
lotta per i suoi fini specifici, dovesse costituire l’ala sinistra di una
coalizione anti-fascista comprendente non più i soli partiti proletari, ma
anche quelli borghesi democratici e liberali, con il postulato di combattere i
regimi totalitari borghesi e di attuare dopo la loro caduta un governo di
coalizione di tutti i partiti, borghesi e proletari, avversi al fascismo. Partendo
dal fronte unico della classe proletaria, si arriva così all’unità nazionale di
tutte le classi, borghese e proletaria, dominante e dominata, sfruttatrice e
sfruttata. Cioè, partendo da una discutibile e contingente manovra tattica,
avente per dichiarata condizione l’assoluta autonomia delle organizzazioni
rivoluzionarie e comuniste, si arriva alla liquidazione effettiva di questa
autonomia, ed alla negazione non più soltanto dell’intransigenza rivoluzionaria
bolscevica, ma anche dello stesso classismo marxista.
Questo sviluppo
progressivo, da una parte risulta in contrasto arbitrario con le stesse tesi
tattiche dei primi congressi dell’Internazionale e con le classiche soluzioni
sostenute da Lenin nell’Estremismo malattia infantile del comunismo,
dall’altro lato, dopo l’esperienza di venti e più anni di vita dell’Internazionale,
autorizza a ritenere che l’enorme deviazione oltre il primo fine proposto sia
derivata, parallelamente alle sfavorevoli vicende della lotta rivoluzionaria
anticapitalistica, da una impostazione iniziale inadeguata del problema dei
compiti tattici del partito.
E oggi possibile, senza
richiamare dai testi delle discussioni di allora tutto l’insieme degli
argomenti critici, conchiudere che il bilancio della tattica troppo elastica e
troppo manovrata è risultato non solo negativo, ma disastrosamente
fallimentare.
I partiti comunisti sotto
la guida del Comintern hanno tentato reiteratamente ed in tutti i paesi di
utilizzare le situazioni in senso rivoluzionario con le manovre del fronte
unico, e successivamente opporsi al cosiddetto prevalere della destra borghese
con la tattica dei blocchi di sinistra. Questa tattica la provocato solo
clamorose sconfitte. Dalla Germania alla Francia alla Cina alla Spagna, le
tentate coalizioni non solo non hanno spostato le masse dai partiti
opportunistici e dalla influenza borghese o piccolo-borghese a quella
rivoluzionaria e comunista, ma hanno fatto riuscire il gioco inverso nell’interesse
degli anticomunisti. I partiti comunisti o sono stati oggetto, alla rottura
delle coalizioni, di spietati attacchi reazionari dei loro ex-alleati,
riportando durissime sconfitte nel tentativo di lottare da soli, o, assorbiti
dalle coalizioni, sono andati totalmente snaturandosi sino a non differire
praticamente dai partiti opportunisti.
Vero è che, dal 1928 al
1934, si è verificata una fase in cui il Comintern ha ridato la parola della
autonomia di posizioni e della lotta indipendente, rivolgendo di nuovo ed
improvvisamente il fronte polemico e di opposizione contro le correnti borghesi
di sinistra e quelle social-democratiche. Ma questa brusca svolta tattica non è
valsa che a produrre nei partiti comunisti il più assoluto disorientamento, e
non ha offerto alcun successo storico nel debellamento sia di controffensive
fasciste che di azioni solidali della coalizione borghese contro il
proletariato. La causa di questi insuccessi deve farsi risalire al fatto che le
successive parole tattiche sono piovute sui partiti e in mezzo ai loro inquadramenti
col carattere di improvvise sorprese e senza alcuna preparazione della
organizzazione comunista alle varie eventualità. I piani tattici del partito,
invece, pur prevedendo varietà di situazioni e di comportamento, non possono e
non devono diventare un monopolio esoterico di gerarchie supreme, ma devono
essere strettamente coordinati alla coerenza teorica, alla coscienza politica
dei militanti, alle tradizioni di sviluppo del movimento, e devono permeare l’organizzazione
in modo che questa sia preparata preventivamente e possa prevedere quali
saranno le reazioni della struttura unitaria del partito alle favorevoli o
sfavorevoli vicende dell’andamento della lotta. Pretendere qualche cosa di più
e di diverso dal partito, e credere che questo non si sconquassi ad impreveduti
colpi di timone tattico, non equivale ad averne un concetto più completo e
rivoluzionario, ma palesemente, come mostrano i concreti raffronti storici,
costituisce il classico processo definito col termine di opportunismo, per cui
il partito rivoluzionario o si dissolve e naufraga nella influenza disfattista
della politica borghese, o resta più facilmente scoperto e disarmato dinanzi
alle iniziative di repressione.
Quando il grado di
sviluppo della società e l’andamento degli eventi conducono il proletariato a
servire a fini non suoi, consistenti nelle false rivoluzioni di cui la
borghesia mostra di sentire ogni tanto il bisogno, è l’opportunismo che vince,
il partito di classe cade in crisi, la sua direzione passa ad influenze borghesi,
e la ripresa del cammino proletario non può avvenire che con la scissione dei
vecchi partiti, la formazione di nuovi nuclei e la ricostruzione nazionale ed
internazionale della organizzazione politica proletaria.
In conclusione, la
tattica che applicherà il partito proletario internazionale pervenendo alla sua
ricostituzione in tutti i paesi, dovrà basarsi sulle seguenti direttive.
Dalle pratiche esperienze
delle crisi opportunistiche e delle lotte condotte dai gruppi marxisti di
sinistra contro i revisionismi della II Internazionale e contro la deviazione
progressiva della III Internazionale, si è tratto il risultato che non è
possibile mantenere integra l’impostazione programmatica, la tradizione
politica e la solidità organizzativa del partito se questo applica una tattica
che, anche per le sole posizioni formali, comporta attitudini e parole d’ordine
accettabili dai movimenti politici opportunistici.
Similmente, ogni
incertezza e tolleranza ideologica ha il suo riflesso in una tattica ed in un’azione
opportunistica.
Il partito, quindi, si
contraddistingue da tutti gli altri, apertamente nemici o cosiddetti affini, ed
anche da quelli che pretendono di reclutare i loro seguaci nelle file della
classe operaia, perché la sua prassi politica rifiuta le manovre, le
combinazioni, le alleanze, i blocchi che tradizionalmente si formano sulla base
di postulati e parole di agitazione contingenti comuni a più partiti.
Questa posizione del
partito ha un valore essenzialmente storico, e lo distingue nel campo tattico
da ogni altro, esattamente come lo contraddistingue la sua originale visione
del periodo che presentemente attraversa la società capitalistica.
Il partito rivoluzionario
di classe è solo ad intendere che oggi i postulati economici, sociali e
politici del liberalismo e della democrazia sono antistorici, illusori e
reazionari, e che il mondo è alla svolta per cui nei grandi paesi l’organamento
liberale scompare e cede il posto al più moderno sistema fascista.
Nel periodo, invece, in
cui la classe capitalistica non aveva ancora iniziato il suo ciclo liberale,
doveva ancora rovesciare il vecchio potere feudalistico, od anche doveva ancora
in paesi importanti percorrere tappe e fasi notevoli della sua espansione,
ancora liberistica nei processi economici e democratica nella funzione statale,
era comprensibile ed ammissibile una alleanza transitoria dei comunisti con
quei partiti che, nel primo caso, erano apertamente rivoluzionari,
antilegalitari ed organizzati per la lotta armata, nel secondo caso assolvevano
ancora un compito che assicurava condizioni utili e realmente «progressive»
perché il regime capitalistico affrettasse il ciclo che deve condurre alla sua
caduta.
Il passaggio tra le due
epoche storiche della tattica comunista non può essere sminuzzato in una
casistica locale e nazionale, né andarsi a disperdere nell’analisi delle
complesse incertezze, che indubbiamente presenta il ciclo del divenire
capitalistico, senza sfociare nella prassi deprecata da Lenin di Un passo
avanti e due indietro.
La politica del partito
proletario è anzitutto internazionale (e ciò lo distingue da tutti gli altri)
fin dalla prima enunciazione del suo programma e dal primo presentarsi della
esigenza storica della effettiva sua organizzazione. Come dice il Manifesto,
i comunisti, appoggiando dappertutto ogni movimento rivoluzionario che sia
diretto contro il presente stato di cose, politico e sociale, mettono in
rilievo e fanno valere, insieme alla questione della proprietà, quei comuni
interessi del proletariato tutto intero, che sono indipendenti dalla
nazionalità.
E la concezione della
strategia rivoluzionaria comunista, fin quando non fu traviata dallo
stalinismo, è che la tattica internazionale dei comunisti si ispira allo scopo
di determinare lo sfondamento del fronte borghese nel paese in cui ne appaiono
le maggiori possibilità, indirizzando a questo fine tutte le risorse del
movimento.
Per conseguenza, la
tattica delle alleanze insurrezionali contro i vecchi regimi storicamente si
chiude col grande fatto della Rivoluzione in Russia, che eliminò l’ultimo
imponente apparato statale militare di carattere non capitalistico.
Dopo tale fase, la
possibilità anche teorica della tattica dei blocchi deve considerarsi formalmente
e centralmente denunziata dal movimento internazionale rivoluzionario.
L’eccessiva importanza
data, nei primi anni di vita della III Internazionale, alla applicazione delle
posizioni tattiche russe ai paesi di stabile regime borghese, ed anche a quelli
extra-europei e coloniali, fu la prima manifestazione del ricomparire del
pericolo revisionistico.
La caratteristica della
seconda guerra imperialistica e delle sue conseguenze già evidenti è la sicura
influenza in ogni angolo del mondo, anche quello più arretrato nei tipi di
società indigena, non tanto delle prepotenti forme economiche capitalistiche,
quanto dell’inesorabile controllo politico e militare da parte delle grandi
centrali imperiali del capitalismo; e per ora della loro gigantesca coalizione,
che include lo Stato russo.
Per conseguenza, le
tattiche locali non possono essere che aspetti della strategia generale
rivoluzionaria, il cui primo compito è la restaurazione della chiarezza
programmatica del partito proletario mondiale, seguito dal ritessersi della
rete della sua organizzazione in ogni paese.
Questa lotta si svolge in
un quadro di massima influenza degli inganni e delle seduzioni dell’opportunismo
che si riassumono ideologicamente nella propaganda della riscossa per la
libertà contro il fascismo, e, con immediata aderenza, nella pratica politica
delle coalizioni, dei blocchi, delle fusioni e delle rivendicazioni illusorie
presentate dalle colludenti gerarchie di innumeri partiti, gruppi e movimenti.
In un solo modo sarà
possibile che le masse proletarie intendano l’esigenza della ricostituzione del
partito rivoluzionario, diverso sostanzialmente da tutti gli altri, ossia
proclamando non come contingente reazione ai saturnali opportunistici ed alle
acrobazie delle combinazioni dei politicanti, ma come direttiva fondamentale e
centrale, il ripudio storicamente irrevocabile della pratica degli accordi tra
partiti.
Nessuno dei movimenti, a
cui il partito partecipa, deve essere diretto da un sopra-partito o organo
superiore e sovrastante ad un gruppo di partiti affiliati, nemmeno in fasi
transitorie.
Nella moderna fase
storica della politica mondiale, le masse proletarie potranno di nuovo
mobilitarsi rivoluzionariamente soltanto attuando la loro unità di classe nella
azione di un partito unico e compatto nella teoria, nella azione, nella
preparazione dell’attacco insurrezionale, nella gestione del potere.
Tale soluzione storica
deve in ogni manifestazione, anche circoscritta, del partito, apparire alle masse
come l’unica possibile alternativa contro il consolidamento internazionale del
dominio economico e politico della borghesia e della sua capacità non
definitiva, ma tuttavia oggi grandeggiante, di controllare formidabilmente i
contrasti e le convulsioni che minacciano l’esistenza del suo regime.
Partito comunista internazionale
www.pcint.org